Luci ed ombre del “pacchetto anticontraffazione”

//Luci ed ombre del “pacchetto anticontraffazione”

Luci ed ombre del “pacchetto anticontraffazione”

Dopo un iter parlamentare lunghissimo, che ha avuto inizio nell’estate 2008 ed ha comportato due letture alla camera dei Deputati e due al Senato, è finalmente diventato legge – nell’ambito di un provvedimento di portata più generale, la legge n. 99/2009, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 31 luglio scorso ed entrata in vigore il successivo 15 agosto – anche il «pacchetto anticontraffazione», frutto dell’attività di un Gruppo di Lavoro insediato dall’Alto Commissario per la Lotta alla Contraffazione pochi mesi prima della sua soppressione, Gruppo di cui ho fatto parte anch’io, insieme ad altri due soci AIPPI, Simona Lavagnini e Riccardo Castiglioni, al quale si deve l’originaria formulazione delle norme penali.Le norme che riguardano la proprietà industriale sono contenute negli artt. 15-19, ma in buona parte sono molto diverse dal testo originario approntato dall’Alto Commissario e non si può dire che siano cambiate in meglio. E’ comunque rimasta, anche se in un testo meno preciso di quello inizialmente proposto, la delega per la revisione del Codice della Proprietà Industriale, che il Governo ha un anno di tempo per esercitare.Come è noto, la revisione del Codice era stata prevista già al momento del suo varo: l’art. 2 della legge n. 306/2004 stabiliva infatti che «entro un anno dall’entrata in vigore dei decreti legislativi» emanati in base alla delega per la predisposizione del Codice «il governo può adottare, previo parere delle competenti commissioni parlamentari, disposizioni correttive o integrative dei decreti legislativi medesimi». L’idea era cioè che il nuovo Codice avesse un anno di «rodaggio», per verificare se erano necessari mutamenti o adattamenti. Ed in effetti una Commissione era stata insediata già nel luglio 2005 e prima della fine dell’anno aveva predisposto un ampio

articolato che non si limitava alla correzione degli errori materiali contenuti nel Codice ed al recupero di alcune disposizioni che erano «saltate» in occasione del varo del Codice (ed in particolare della priorità interna e della nuova disciplina delle invenzioni dei ricercatori universitari), ma aveva operato un approfondito ripensamento delle norme del Codice, nella prospettiva di rafforzare e rendere più efficace la protezione dei diritti di proprietà industriale, considerata elemento chiave per la competitività dell’«azienda Italia». Tuttavia, nonostante la tempestiva conclusione dei lavori ad opera della Commissione, il provvedimento si arenava nel corso dei passaggi agli uffici legislativi dei vari Ministeri competenti e il termine previsto per l’esercizio della delega scadeva il 19 marzo 2006 senza essere rinnovato. Le uniche norme predisposte dalla Commissione ad entrare effettivamente in vigore erano così quelle riconducibili all’attuazione della Direttiva n. 48/2004/C.E. (la cosiddetta Direttiva «Enforcement»), varate col d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140. La nuova delega, ancorché meno specifica di quella ipotizzata dal progetto dell’Alto Commissario, prevede comunque che l’intervento riguardi non soltanto le disposizioni di carattere sostanziale, ma anche quelle processuali, il che dovrebbe scongiurare i rischi di pronunce d’incostituzionalità analoghe a quelle che si sono abbattute sul Codice proprio per questa ragione. Tra gli altri criteri, degni di nota sono quelli della «controriforma» della disciplina delle invenzioni dei dipendenti delle Università e delle istituzioni pubbliche di ricerca, con l’attribuzione alle istituzioni di appartenenza del diritto al brevetto.Oltre a rinnovare la delega per la revisione del Codice, la legge n. 99/2009 ha già introdotto direttamente una serie di innovazioni, in gran parte sempre derivanti dal progetto dell’Alto Commissario. Sul piano civilistico, particolarmente significativa appare l’introduzione dellacosiddetta «priorità interna», ossia della possibilità di rivendicare la priorità di una domanda di brevetto italiano anche in una successiva domanda di brevetto egualmente depositata nel nostro Paese. Egualmente significativa è l’abrogazione dell’art. 3 del D.M. 3 ottobre 2007, ossia della norma, molto criticata, che specificava che «la decadenza del diritto di proprietà industriale» comminata nelle ipotesi di «ritardo del pagamento della quinta annualità per il brevetto per invenzione industriale (e) del secondo quinquennio per il brevetto per modello di utilità e per la registrazione di disegno o modello» e di «mancata o tardiva presentazione dell’istanza di proroga di cui all’art. 238 del decreto legislativo n. 30/2005, riferita al secondo quinquennio dei disegni e modelli» operasse «dalla data del deposito della relativa domanda», ossia retroattivamente, mentre il principio generale in materia di decadenza dei diritti di proprietà industriale è quello per cui la decadenza produce i suoi effetti dal momento in cui si verifica la situazione che vi ha dato causa.Ancor più importanti sul piano pratico sono le modifiche apportate agli artt. 120, 122 e 134 del Codice. Il nuovo testo dell’art. 120 contempla la facoltà per il giudice di disporre la sospensione della causa di nullità o di contraffazione promosse sulla base di titoli non ancora concessi sino a quando l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi abbia provveduto sulla domanda stessa di concessione, evitando il rischio che la causa possa giungere in decisione prima che l’U.I.B.M. abbia provveduto. L’art. 122 precisa ora che a dover essere trasmessi all’U.I.B.M. sono gli atti introduttivi e le sentenze dei soli giudizi relativi ai «titoli» di proprietà industriale, ossia per i diritti che sorgono con un atto amministrativo di registrazione o di brevettazione, escludendo espressamente quest’onere per i diritti rimanenti, rispetto ai quali tale trasmissione sarebbe del tutto inutile. Infine, all’art. 134 del Codice è stata riformulata disposizione sulla competenza delle Sezioni Specializzate in materia di Proprietà Industriale e Intellettuale per tener conto comma della sentenza della Corte Costituzionale n. 170/2007, che ha giudicato illegittima l’applicazione alle cause industrialistiche del cosiddetto rito societario, che proprio in questi giorni è stato definitivamente cancellato.

Anche se apparentemente minori, queste modifiche processuali sono in realtà della massima importanza, perché hanno offerto al legislatore il destro di prevedere un regime transitorio che rende applicabili le norme modificate anche ai processi in corso. In tal modo è stato sventato il rischio di una possibile declaratoria d’incostituzionalità di tali disposizioni – che avrebbe avuto conseguenze gravissime, in particolare per le cause instaurate davanti alle Sezioni Specializzate per ragioni di connessione impropria e per i giudizi in grado di appello. La legge n. 99/2009 ha anche riscritto la norma sui giudizi d’appello che era stata dichiarata costituzionalmente illegittima, prevedendo che «Le controversie in grado d’appello nelle materie di cui all’articolo 134 iniziate dopo l’entrata in vigore del presente codice, restano devolute alla cognizione delle sezioni specializzate di cui al decreto legislativo 27 giugno 2003, n. 168, anche se il giudizio di primo grado o il giudizio arbitrale sono iniziati o si sono svolti secondo le norme precedentemente in vigore, a meno che non sia già intervenuta nell’ambito di essi una pronuncia sulla competenza» (art. 245, comma 2 C.P.I., mentre al comma 3° una regola analoga è stabilita per i reclami e i giudizi di merito a seguito dei provvedimenti cautelari cominciati prima dell’istituzione delle Sezioni specializzate). Ciò significa che in queste cause d’appello non dovrà essere dichiarata l’incompetenza del Giudice adito e che quindi tali cause non dovranno essere reinstaurate davanti ai Giudici che sarebbero stati competenti secondo le ordinarie regole di competenza, con rilevanti vantaggi in termini di risparmi di costi e di economia processuale. Vi è solo da notare l’errore materiale consistente nell’uso del maschile «essi» in luogo del femminile «esse» alla fine della norma: è infatti evidente che, perché la prescrizione abbia un senso, la già intervenuta pronuncia sulla competenza che lascia le cause in appello alla competenza dei Giudici determinati in base alle norme ordinarie, anziché affidarle alle Sezioni Specializzate, dev’essere intervenuta appunto nelle «controversie in grado d’appello», e non certo nei corrispondenti giudizi di primo grado.Più discutibile è la riscrittura della disposizione transitoria in materia di diritto d’autore sulle opere dell’industrial design (art. 239 C.P.I.). La nuova norma, infatti, «corregge il tiro» solo in parte, poiché ammette espressamente alla protezione di diritto d’autore anche le opere create prima del 19 aprile 2001 (data dell’entrata in vigore della norma che ha introdotto per la prima volta in Italia la protezione di diritto d’autore del design dotato di valore artistico), ma accorda al contempo la facoltà di continuare a copiare tali opere a tutti gli imitatori che possano dimostrare di aver iniziato la loro attività egualmente prima di tale data. La norma prevede peraltro che l’attività degli imitatori possa proseguire solo «nei limiti del preuso», ossia senza eccedere i livelli (verosimilmente, anche quantitativi) che essa aveva prima del 19 aprile 2001: e ritengo che si possa sostenere che sia l’imitatore a dover provare sia il preuso, che è il fondamento del suo diritto di continuare a copiare, sia questo livello quantitativo anteriore, che ne costituisce la misura. Anche la nuova norma, peraltro, deve ritenersi sub iudice. Come viene riferito in questo stesso numero di AIPPI News, infatti, il Tribunale di Milano ha rivolto alla Corte di Giustizia C.E. una richiesta d’interpretazione pregiudiziale della Direttiva n. 98/71/C.E. proprio relativamente al regime transitorio della protezione di diritto d’autore del design e implicitamente dunque anche sulla compatibilità con essa di una norma come questa.Come si accennava, la legge n. 99/2009 è intervenuta anche sull’apparato sanzionatorio penale e amministrativo della contraffazione, anche se in modo complessivamente non molto felice. Mentre infatti il testo iniziale del disegno di legge riprendeva quasi alla lettera le disposizioni, coerenti e coordinate, previste al riguardo dal «pacchetto anticontraffazione» predisposto dall’Alto Commissario, la prima lettura al Senato le ha largamente stravolte. Ma di questo parleranno più diffusamente i colleghi penalisti negli articoli di approfondimento ai quali faccio rinvio. Almeno su una disposizione ritengo però opportuno soffermarmi: mi riferisco all’ennesima modifica dell’art. 4, comma 49, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, con l’aggiunta di una norma con la quale viene vietata in ogni caso l’apposizione di marchi «di aziende italiane» su prodotti realizzati all’estero, a meno che non sia indicata l’effettiva provenienza geografica di essi con «caratteri evidenti» o con «altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera». Non solo infatti questa norma ostacolava ingiustificatamente un fenomeno – quello del decentramento e dell’integrazione produttiva a livello internazionale – che riveste un’evidente valenza filoconcorrenziale, riducendo i costi e favorendo in ultima analisi proprio i consumatori, ma viene introdotta un’assurda disparità di trattamento tra i prodotti fatti realizzare all’estero da imprese italiane e da imprese straniere, anche comunitarie, che appare costituzionalmente illegittima, anche al di là della più che dubbia compatibilità di essa con la disciplina europea.

La levata di scudi delle associazioni di categoria, e i commenti negativi degli esperti, hanno portato a una frettolosa «marcia indietro» e all’abrogazione della norma, operata dal d.l. 25 settembre 2009, n. 135, ma non completa. L’art. 16 di tale decreto ha infatti bensì eliminato la sanzione penale, sostituendola però con una sanzione amministrativa molto elevata (da 10.000 a 250.000 Euro) e sempre accompagnata dalla confisca della merce; è inoltre rimasta la segnalata disparità di trattamento, giacché, anche se la norma non parla più di «marchi di imprese italiane», ma di «uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana», essa comunque continua a prendere in considerazione non la difformità tra qualsiasi provenienza geografica apparente e reale dei prodotti, ma unicamente l’ipotesi in cui l’origine apparente sia italiana, con la conseguenza che, ad esempio, un marchio che sia usato in modo da indurre il consumatore a ritenere che provengano dalla Francia prodotti in realtà realizzati altrove non darà luogo ad alcun profilo di illiceità, pur essendo come è ovvio la situazione del tutto equivalente. E questa disparità di trattamento è evidentemente sindacabile sia sotto il profilo della violazione del principio costituzionale di eguaglianza (art. 3 Cost.), per cui la legge non può disciplinare in modo difforme fattispecie del tutto corrispondenti, pena l’introduzione di una ingiustificata discriminazione; sia sotto quello di una violazione dell’art. 28 (30) Trattato C.E., che sancisce il divieto dell’imposizione di misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative. La tecnica legislativa non consente neppure di comprendere che cosa esattamente sia sanzionato, ossia se basti la semplice apposizione di un marchio dal «suono italiano» (o comunque che sia notoriamente italiano) o se occorra anche il compimento di condotte ulteriori, idonee appunto a far credere al consumatore che non solo il marchio sia italiano, ma anche la merce contraddistinta provenga dall’Italia: il che parrebbe logico, se la nuova norma venisse interpretata in coerenza con l’orientamento consolidato della giurisprudenza penale, che ha sempre escluso che, di per sé, il marchio informi il pubblico sulla provenienza geografica. Analogamente, non è chiaro che cosa si debba intendere per «uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario»: se infatti la norma dovesse essere interpretata nel senso di sanzionare già la semplice immissione in Italia di prodotti non conformi alla prescrizione, ancorché destinati a mercati diversi da quello italiano, dove essa ovviamente non opera, il risultato sarebbe quello di indurre le nostre imprese a spostare fuori dell’Italia la loro logistica, penalizzando anche sotto questo versante l’Azienda Italia. Il fatto poi che l’applicazione della norma sia affidata ad autorità amministrative, di regola prive di un’adeguata formazione al riguardo, rende particolarmente importante l’adozione di una circolare interpretativa che chiarisca questi dubbi, e prima ancora l’adeguamento della norma in sede di conversione del decreto legge.

Considerazioni analoghe valgono anche per l’altra novità introdotta dal d.l. n. 135/2009, ossia la previsione di sanzioni (questa volta penali, quelle previste dall’art. 517 c.p., incongruamente aumentate di un terzo) per l’utilizzo di «un’indicazione di vendita che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale “100% made in Italy”, “100% Italia”, “tutto italiano”, in qualunque lingua espressa, o altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero segni o figure che inducano la medesima fallace convinzione» in relazione a prodotti che non siano stati effettivamente «realizzati interamente in Italia», dovendosi intendere per tali quelli per i quali «il disegno, la progettazione, la

lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano». Anche in questo caso, al di là dei problemi di compatibilità col diritto comunitario, la norma appare estremamente imprecisa e di difficile applicazione: posto che espressioni come «Made in Italy» possono essere utilizzate anche per prodotti che in Italia hanno soltanto «subito l’ultima trasformazione sostanziale», com’è prescritto dal Codice Doganale Comunitario, sembra logico pensare che i «segni» e le «figure» che comunicano un’origine italiana al 100% non possano essere semplicemente il tricolore o la riproduzione dello Stivale, se non sono accompagnati da espressioni verbali come «100%» o «tutto», ma la norma si presta evidentemente anche ad interpretazioni di segno diverso. Non è del resto chiaro neppure come sia possibile accertare che in Italia siano effettivamente avvenuti il «disegno» e la «progettazione», specie quando questi abbiano coinvolto designers stranieri, come frequentemente accade anche per imprese e per prodotti-simbolo del Made in Italy.

E dunque anche questa disposizione rischia di ingenerare illusioni, e dare origine ad un contenzioso a non finire, più che conseguire i risultati sperati, che potevano essere raggiunti molto più facilmente attraverso il ricorso a marchi collettivi, previsti tra l’altro sia dall’ordinamento interno, sia da quello comunitario. Certamente da accogliere con favore, ed in effetti prevista già nell’originario «pacchetto anticontraffazione», è invece la modifica dell’art. 1, comma 7, del D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), con la determinazione di un minimo di 100 Euro della sanzione per l’acquirente consapevole di merci contraffattorie (ridotta nel massimo a 7.000 Euro, in luogo degli attuali 10.000), che porta questa sanzione ad un livello socialmente accettabile e quindi concretamente irrogabile in particolare ad opera dei vigili urbani; dalla norma è stato espunto anche l’inciso iniziale «Salvo che il fatto costituisca reato», in modo da rendere chiaro che questa sanzione amministrativa sostituisce l’eventuale sanzione penale (per ricettazione o incauto acquisto), il che egualmente ne dovrebbe rendere più agevole l’applicazione da parte delle autorità amministrative.

Di un’ultima novità importante per il diritto industriale si deve ancora parlare, anche se non è contenuta in questa legge. Il 4 luglio scorso è infatti entrata in vigore una nuova riforma del processo civile, peraltro applicabile ai soli procedimenti che hanno avuto inizio a partire da questa data e non a quelli in corso. Tra le nuove norme una diretta rilevanza per i giudizi di diritto industriale assume infatti l’art. 195 c.p.c., relativo alla consulenza tecnica d’ufficio, che viene a dare sanzione normativa ad una prassi già adottata in vari Tribunali, ossia quella di richiedere al C.T.U. di apprestare una sorta di «progetto» di Relazione, da sottoporre ai consulenti di parte registrandone i commenti e rispondendo ad essi nella Relazione finale: ciò allo scopo di evitare che il contraddittorio tecnico si prolunghi in una successiva fase di supplemento disposto dal Giudice appunto per rispondere alle obiezioni mosse dalle parti alla consulenza.

Dunque, l’evoluzione del nostro diritto della proprietà intellettuale continua: con passi avanti e passi indietro, che spesso, come si vede anche da quest’ultimo intervento normativo, sono frutto più della casualità che di un organico disegno riformatore, per il quale probabilmente occorrerebbe che tutte le associazioni e gli organismi che si occupano di questa materia cercassero di coordinarsi in una sorta di “parlamentino”, per presentare in modo il più possibile unitario e rappresentativo al mondo politico le istanze di chi nel settore IP quotidianamente vive ed opera.

AVV. PROF. CESARE GALLI STUDIO IP LAW GALLI – MILANO

2019-11-02T09:25:51+01:00 10 Novembre 2009|Varie|