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Problemi complessi, richiedono risposte complesse. Mi pare sempre più evidente che la P.I. sia o sia divenuta appunto una realtà complessa. Le riflessioni che seguono intendono verificare se esiste allo stato nel nostro Paese una sufficiente consapevolezza di questa realtà dalla quale si possa tentare la rappresentazione, seppure per approssimazione, di uno  scenario di riferimento al quale utilmente rapportarsi, e  questo vale naturalmente anche per i giuristi. Se così non fosse,  ogni azione sarebbe destinata a diluirsi nel limbo dell’inconcludenza e nel disorientamento della frammentazione.

Come potete immaginare, la mia operatività  professionale, prima come avvocato, poi come giudice ed infine come studioso in un contesto per larga parte internazionale, multi linguistico e multi culturale,  ha portato al mio rientro in Italia a legittimare la domanda da parte di chi mi incontrava, un po’ sconcertato dalle mie ondivaghe divagazioni:‘Ma insomma, adesso cosa fai?’, Domanda alla quale mi è venuto di rispondere:”Beh…continuo a fare quello che ho sempre fatto: guardo nella testa della gente alla ricerca di qualche idea nuova e se mi capita di trovarla, gli dico come  tutelarla e sfruttarla al meglio. E magari qualcuno per questo mi paga!’.

Debbo aggiungere  che, almeno sino ad ora, non ho trovato ancora nulla di meglio per descrivere il mio impegno e il mio modo di pensare sulla P.I. Ed in effetti, come possiamo negare il senso della continua ricerca, dell’avventura e dell’imprevedibilità che caratterizza ogni processo creativo? Da quel processo derivano i risultati che il diritto di volta in volta prende in considerazione: l’opera letteraria, l’invenzione, il design, il segno distintivo, il data base e via dicendo, risultati sottoposti alla necessità di rispondere a certe regole perché possano accedere ad alcune esclusive di sfruttamento, legalmente protette. Ne consegue però la loro intrinseca dinamicità e mobilità, palesemente contraddicendo in tal modo la regola giuridica che, per definizione e natura, è statica, disciplinando a posteriori i fatti, quando questi assumono rilevanza nella valutazione degli interessi in gioco della collettività in un determinato momento e che giustificano, o meglio, richiedono l’intervento del legislatore.

La vivacità di questa contraddizione assume particolare  evidenza nella proprietà intellettuale perché, oltre alla  matrice d’origine dei suoi istituti, frutti come appena detto di un procedimento di per sé in continua evoluzione come quello creativo, occorre ricordare che nella società contemporanea la loro gestione è affidata prevalentemente, se non esclusivamente alle imprese, come a dire a quei soggetti economici che fanno della flessibilità, dinamicità ed adattabilità delle loro risposte ai diversi contesti (mercato, concorrenti, consumatori, territorio) il punto di forza delle loro strategie aziendali. Da cui, lo stretto legame in termini di strumentalità delle riserve legali alla competitività concorrenziale.

Il diritto della proprietà intellettuale, da sempre, ha cercato di mediare,  attraverso due tecniche. Con la prima, si è usato del limite temporale, come strumento per realizzare il patto del tipo: ti do questo, non per sempre, ma perché prima o poi mi ritornerai il risultato della tua ricerca, investimento o immaginazione. Con la seconda, si è data licenza ai giuristi (giudici, avvocati, consulenti, accademici) di fare interpretazione, specie quella storica-evolutiva, per permettere alla regola che disciplina i vari istituti di recuperare lo scarto dell’adattamento dell’astrattezza rispetto ad una realtà irrimediabilmente in anticipo ed evoluzione. Il fattore temporale, tuttavia, ha assunto ai nostri tempi aspetti di criticità insostenibili, nel senso che la  sua accelerazione ha ristretto qualsiasi margine di recupero nella rincorsa della norma: la tempestività della risposta aziendale alle domande del mercato è divenuto il quinto fattore del suo capitale concorrenziale e la ragione della sua sopravvivenza. La partita della concorrenzialità si gioca tutta d’anticipo, nel capire, prevedere, prevenire ed intervenire sul cambiamento.  Decadenze, esaurimenti, prescrizioni, diluzioni, more e pregiudizio nel ritardo, rischio di confondibilità,  che attraversano tutto il percorso della proprietà industriale nell’ultima codificazione ed estensioni temporali assurde nel diritto d’autore, specie quando interconnesso al design, vanno rilette e riconsiderate sotto questo aspetto.

Ci troviamo quindi di fronte ad un primo problema, quello della conciliazione tra  l’interesse individuale, concreto e rivolto al profitto, e quello teso alla libera circolazione delle idee e dei comportamenti anche economici (è la Freithaltungbedurfnis, l’imperativo della disponibilità, diremmo noi, che tanto piace ai tedeschi).  Siamo all’antitesi produzione-riproduzione,  sulla quale si innesta l’acceso dibattito in corso  che, al limite, rimette in discussione alcuni istituti fondamentali della proprietà intellettuale, quali la legittimità della protezione del diritto d’autore, della   brevettazione dei farmaci primari per la salute, della riservatezza dell’informazione e del Know how  una volta immessi nella rete, ed altro ancora.

Cose note e problemi complessi, appunto, dai quali emerge, in modo  che dovrebbe essere chiaro, l’inadeguatezza, l’insufficienza della sola risposta giuridica, anche attraverso la interpretazione della norma che pur sempre  nei suoi confini rimane.

Ma di ciò non ne sono affatto convinto. Non mi pare, cioè, che la proprietà intellettuale (onnicomprensiva della proprietà industriale) sia oggi contestualizzata nel nostro paese. Intendo dire che non se ne colgono ancora gli aspetti più complessi, per inerzia, pigrizia, provincialismo, male inteso senso di un supposto, quanto, inesistente, primato giuridico, arroganza scientifica, in una, per quello che definisco ‘il pensier corto’. Il dilagante ‘pensiero corto’ in tutti gli aspetti della nostra sofferente società (economico, politico, etico, mediatico e, naturalmente, giuridico) implica la rinuncia alla progettualità, l’assenza di sensibilità verso l’altro ed il diverso, la modestia di una visione meramente conservativa a difesa del successo già acquisito, il rifiuto a confrontarsi con le sfide. Come spiegare altrimenti, ad esempio nell’area dell’architettura (niente affatto lontana dalla strutturazione finalizzata di un sistema giuridico) il paradosso dell’addebito a Lorenzo Piano di aver sbagliato i calcoli delle volte dell’Auditorium a Roma, a Santiago Calatrava di minacciare l’incolumità dei veneziani con la scivolosità del suo ultimo ponte, e l’umiliante esitazione/rifiuto degli amministratori di Ravello di dar corso al  progetto ultra decennale di Oscar Niemeyer, tutti e tre tra i più grandi architetti del mondo?

Per restare a noi, ho l’impressione che in un momento di desolante declino del nostro Paese e degrado del sistema culturale, che è stato sempre la nostra forza, negli studi professionali, e non solo, non si investa più sulle risorse umane ed i giovani trovino porte chiuse, se non resistenza, nella magistratura sia diffusa la demotivazione, nell’Amministrazione si insegua la patologia della nostra materia, la contraffazione (politicamente rivendibile) invece che  la sua costruzione e promozione, mentre una legislazione pasticciona e confusionaria segue il contingente e transitorio ( v. la conclusione del precedente editoriale). Del resto si inventa sempre meno ed il ‘made in Italy’ è divenuta una formula stereotipata autoreferente. Il mondo accademico poi, sembra a volte più preoccupato di far audience che del suo mestiere, che è quello di studiare e trasferire conoscenza, anche se un cattivo professore può far più danni di mille ignoranti.

Come impressione, è un mezzo disastro, penserete Voi. Certo abbiamo accumulato nei confronti degli altri paesi  un grosso ritardo non tanto nelle conoscenze, ma nei metodi  e nelle mentalità, al punto  che sembrerebbe difficile affrontare le sfide del tempo. Ma non penso sia così, anche se sarebbe facile liquidare il tutto e confortarci con una comoda ‘impressione sbagliata’. Vediamo perché. Anche perché tutti ci dicono che stiamo uscendo dalla crisi, ma nessuno ci spiega, appunto, come ciò possa avvenire.

Innanzi tutto abbiamo dei solidi riferimenti a livello normativo che ci inducono ad una visione allargata e moderna della nostra materia. L’Italia, in tema, non vanta alcun ritardo significativo nell’adeguamento alla legislazione comunitaria, internazionale e convenzionale. Del resto il Codice, sicuramente perfettibile nei contenuti, senza che sia necessario portare a Piazzale Loreto i suoi disgraziati redattori, ne è chiaramente un indice, avendo mutuato la riforma (non è un testo unico) dalla regolamentazione dei TRIPs, che colloca la tutela dei vari istituti all’interno di un contesto economico ed all’esterno in un orizzonte internazionale.  Anzi, nella mia permanenza all’estero – se mi permettete la notazione personale –  ho sempre avuto l’orgoglio di vantare la tempestività e l’attualità della nostra disciplina (l’armonizzazione alla Direttiva sui marchi è arrivata in Gran Bretagna dopo due anni rispetto a noi e la tanto strombazzata efficienza tedesca  ha introdotto la tutela dei marchi di forma anche più tardi) e  poi, a dispetto di una Amministrazione della giustizia ormai in via di dissolvimento, possiamo vantare – non si sa bene per quale strano miracolo – un sistema di misure cautelari tra i migliori, affidato a dei giudici specializzati (in questo, tra i primi in Europa).

Quanto al diritto materiale ed alla sua interpretazione, ha ragione Adriano Vanzetti  quando ha sempre detto che non abbiamo niente da imparare da nessuno. Alcune questioni pregiudiziali portate all’attenzione della Corte di giustizia sarebbero state da noi tranquillamente decise dal pretore di Montebelluna. Il fatto è che in Europa, dove dobbiamo fare i conti con un irreversibile processo di armonizzazione, non si sa praticamente nulla della nostra brillante dottrina. Problemi di lingua, dirà qualcuno. Ma anche colpevole disinteresse di chi non vuole a priori confrontarsi con quelli che ‘stanno di là’. Ma la Corte di giustizia ce la troviamo ormai in casa, almeno per le questioni di marchi e di design, sul brevetto vedremo. Le linee interpretative di questi istituti sono dettate ormai da quella giurisdizione di legittimità e mi pare che siano lontani i tempi in cui taluni da noi ne contestava, sotto tale aspetto, poteri e legittimazione.

Il che non esclude affatto la validità, oltre che la indipendenza giuridica, delle pronunce dei nostri giudici specializzati (pochini per la verità) che  danno segno di insospettabili aperture. Al di là della localizzazione giuridica nazionale, integrativa e complementare con quella europea, mi consta infatti che il Tribunale di Torino e quello di Milano stiano mettendo a punto un modello di ristrutturazione delle sentenze, articolandone le motivazioni di diritto in brevi paragrafi, progressivamente numerati, secondo il modello delle sentenze della Corte di giustizia (proprio quello astiosamente osteggiato sino a ieri da qualcuno). Si tratta di una rivoluzione epocale rispetto alla discorsività dialettica nostrana che troviamo correntemente in atti e giudizi, resa inevitabile dalla necessità di armonizzare il diritto materiale all’interno dell’Unione Europea, che imporrà negli studi professionali nuovi metodi di organizzazione del lavoro, di accesso alla diffusione e circolazione delle informazioni, di approccio ed espressione delle problematiche giuridiche. Tempo fa, chi ricercava conoscenza, prendeva un cavallo e in un mese arrivava a Rotterdam, suonava il campanello e parlava con un certo Erasmo, che gli dava tutte le informazioni che gli occorrevano. Ora prende Google, preme un tasto ed in un secondo trova tutte le leggi, i regolamenti e le sentenze che gli servono.

Le sentenze, già. E qui sorge un altro problema  della proprietà intellettuale (e non solo) che denuncia tutta l’anomalia del caso italiano, elegante espressione di comodo per coprire con la foglia di fico della presunta originalità tutte le inaccettabili carenze del sistema Italia, altra inesistente panzana. Nell’era dell’informatica, a parte il data base della Cassazione, da noi non si riesce a leggere una sentenza, se non sulle riviste o grazie ad un amico giudice, con un ritardo incompatibile con quella criticità del fattore temporale di cui ho parlato. Vai invece sul sito CVRIA  e trovi in tempo reale, molte volte anche nella tua lingua, le sentenze sui marchi, i design, il diritto d’autore, la pubblicità comparativa e via dicendo, del Tribunale di Primo Grado e della Corte di Giustizia,  giurisdizioni che solo nelle materie indicate producono una decina di decisioni a settimana. Questo spiega perché sempre più spesso i professionisti, che sono condizionati dal pensier corto e non hanno più tempo per aspettare di conoscere i contributi della giurisprudenza e dottrina nazionale, guardano a Lussemburgo, cercando di orientarsi tra l’imponente volume di dati ed informazioni disponibili.

Situazione che ingenera altro problema, dal momento che l’abbondanza dell’informazione a fronte della sua rarefazione nei tempi passati, sposta tecnicamente l’operare, dalla ricerca e l’accesso alla conoscenza alla sua selezione, invece che alla sua acquisizione, per tradurla in linee operative immediatamente applicabili. Noto, anche nei grandi studi professionali –riferendomi all’Italia – l’affannosa ricerca dell’utile – spesso a scapito della qualità – e quindi del precedente, dell’anticipazione, del ‘caso’ da convertire nello scritto, l’opinione, la discussione  in un apporto di attualità a sostegno delle proprie tesi o posizioni. E’ evidente, pertanto, che c’è un problema di aggiornamento, di cui negli ultimi tempi si sono resi conto, con colpevole ritardo, gli ordini professionali, ma non – apparentemente – le strutture dei professionals. La gestione dei servizi giuridici nell’area della proprietà intellettuale giustifica – almeno in prospettiva – a mio modo di vedere la previsione nell’organico di quello che definirei un information updating manager, un responsabile dell’aggiornamento legale, cui delegare la funzione esclusiva di selezionare le informazioni documentali, normative, giurisprudenziali e dottrinali, convertendole in messaggi sintetici ed appropriati destinati ai vari componenti della struttura professionale, secondo competenza per materia.

Ma vi sono altri segni indicatori che,  pur provenendo da altri ordinamenti, incideranno sempre più anche da noi sugli sviluppi della proprietà intellettuale. Dalla giurisprudenza comunitaria, innanzi tutto, dalla   quale emerge sempre più l’attenzione ai processi percettivi dei consumatori dei segni distintivi delle imprese, delle forme in cui comunicano, (sui quali aspetti ho negli ultimi hanno concentrato le mie ricerche) e la progressiva erosione della linea di confine con la tutela concorrenziale. Dal legislatore, teso alla compressione del diritto morale dell’autore ed alla svalutazione della componente estetica in nome della prevaricazione esercitata dai riproduttori dell’opera. Dalla dottrina internazionale più avanzata (William Cornish e Jeremy Phillips in Gran Bretagna, Richard Posner in USA, Karl Heinz Fezer ed Annette Kur in Germania, Meyr Pugatch in Israele, per citarne solo alcuni tra i più noti) che  propone una  visione interdisciplinare ed una lettura trasversale della materia (della dottrina italiana non parlo perché preferisco non far torto ad alcuno, dimenticandolo). Dalle imprese, ormai incapaci di scindere gli aspetti giuridici dei vari titoli della proprietà industriale dalla valutazione in bilancio degli intangibile assets e dal loro valore strategico.

Insomma, da più parti il destino bussa alla porta. E ’arrivato il momento di passare, in una concezione olistica della proprietà intellettuale che rivela tutta la sua complessità nel dato fenomenico, dall’approccio top-down a quello bottom-up, (mutuando dalle ricerche cognitive di Neisser).  Con il primo, tipico dell’atteggiamento conservatore del giurista, si cerca la regola, la si interpreta e la si applica al fatto e naturalmente non sempre l’operazione si conclude felicemente in termini di concretezza e  comune buon senso. Con il secondo, si parte dalla realtà, la si esamina  e la si comprende, e da questa si risale per inferenza all’astrattezza della regola, per ritornarvi in un percorso circolare, e non lineare.

Mai come in questo momento l’errore di prospettiva finirebbe per risultare esiziale.

stefano sandri ,velista, pittore, un po’ filosofo, occasionalmente giurista




L’Ufficio Europeo dei Brevetti (UEB) ha recentemente adottato nuove regole per il deposito di domande di brevetto divisionali; le nuove disposizioni entrano in vigore a partire dal 1 aprile 2010 e vanno a modificare la vigente Regola 36 paragrafo (1) e (2) della Convenzione sul Brevetto Europeo (CBE).
Pur mantenendo la stessa data di deposito della domanda parentale, e quindi traendo beneficio dello stesso diritto/i di priorità, la domanda divisionale è trattata come una nuova domanda di brevetto, indipendente da  quella parentale, purché il suo contenuto non  si estenda oltre a quanto descritto nella parentale. In breve, non è possibile aggiungere materiale non direttamente riconducibile  a quest’ultima (art. 76.1 CBE).
Sino ad oggi, era possibile depositare una domanda divisionale in qualsiasi momento della procedura, a condizione che la domanda originaria (parentale) fosse ancora pendente.
Fermo restando quanto previsto nell’art. 76.1, le modifiche recentemente adottate introducono stringenti limiti temporali tali da ridurre sensibilmente le modalità di deposito di domande divisionali sia volontarie (secondo le necessità del Titolare) che obbligatorie (in quanto richieste dall’UEB).
Qui di seguito, sono riportate le modifiche più rilevanti.
Secondo la nuova Regola 36 (1) (a), il Titolare di una domanda di brevetto può depositare volontariamente una (o più) domanda divisionale sulla base di una domanda parentale non ancora rilasciata, quindi pendente, entro 24 mesi dalla prima comunicazione emessa dalla Divisione di Esame dell’UEB rispetto a tale domanda parentale. Va da sé che qualora la domanda parentale cessa di essere pendente dopo la notifica della prima comunicazione, benché prima della scadenza dei 24 mesi, non sarà più possibile attivare la procedura del deposito divisionale. La comunicazione del Rapporto di Ricerca e dell’opinione della Divisione di Ricerca dell’UEB non costituisce, la base per il calcolo dei 24 mesi in quanto la “prima comunicazione della Divisione di Esame dell’UEB” è una comunicazione emessa in base all’Art. 94(3) e la Regola 71 (1),(2) della Convenzione o, laddove  appropriato, alla Regola 71(3).
Nel caso di una serie di domande di brevetto divisionali, il periodo dei 24 mesi è da calcolarsi dalla data in cui viene emessa la prima comunicazione della Divisione di Esame dell’UEB, relativa alla prima domanda di brevetto (domanda parentale) della serie.
Secondo la nuova Regola 36 (1) (b), il  Titolare di una domanda di brevetto è inviato a depositare obbligatoriamente una (o più) domanda divisionale sulla base di una domanda parentale pendente, entro 24 mesi da ogni comunicazione emessa dall’UEB in cui la Divisione di Esame solleva, per la prima volta, una obiezione di non-unità di invenzione, secondo l’Art. 82 della CBE.  Una obiezione di non-unità è solitamente sollevata nella prima comunicazione della Divisione di Esame in conformità all’Art. 94(3) e alla Regola 71(1),(2) della Convenzione o, se già sollevata dalla Divisione di Ricerca, è ivi confermata. La comunicazione del Rapporto di Ricerca e dell’opinione della Divisione di Ricerca dell’UEB non costituisce la base per il calcolo dei 24 mesi. Né la conferma della mancanza di unità di invenzione in una comunicazione successiva da parte della Divisione di Esame fa decorrere un nuovo periodo per il deposito di successive domande divisionali obbligatorie. La comunicazione emessa dall’UEB, quale Autorità Internazionale (Autorità di Ricerca Internazionale – ISA- o Autorità Internazionale per l’Esame Preliminare  – IPEA-) durante la procedura PCT,  non fa decorrere il periodo dei 24 mesi per il deposito di domande di brevetto divisionali.  Resta inteso che un nuovo limite temporale di 24 mesi può essere calcolato solo sulla base della comunicazione della Divisione di Esame in cui una nuova, differente obiezione di non-unità di invenzione viene sollevata.
Poiché la norma modificata della Regola 36 della CBE trova applicazione alle sole domande di brevetto divisionali depositate dopo la sua entrata in vigore, ossia dal 1 aprile 2010, l’UEB ha previsto un periodo di transitorietà affinchè, laddove vi siano limiti temporali ancora non scaduti al 1 aprile 2010, questi siano prorogati per non meno di sei mesi. In altre parole, per qualsiasi domanda di brevetto ancora pendente al 1 aprile 2010,  e per la quale è stata emessa una prima comunicazione della Divisione di Esame o è stata (successivamente) sollevata una obiezione di non-unità di invenzione, la scadenza ultima per il deposito di eventuali domande divisionali non potrà essere antecedente al 1 ottobre 2010.
La norma è in linea con il tentativo da parte dell’UEB di ridurre i tempi dell’esame e di scoraggiare i richiedenti a depositare domande di brevetto contenenti più invenzioni. Vantaggiosamente si dovrebbe ottenere anche un riscontro sulla brevettabilità del contenuto della domanda di brevetto, in tempi più brevi. Infatti le nuove disposizioni pongono un’attenzione particolare ai terzi che, disponendo di un trovato divulgato in una domanda di brevetto ma non ivi rivendicato, sono costretti a operare in un regime di incertezza fino all’esito finale della procedura brevettuale.
Anne Cécile Trillat
Monica Sette
de simone & partners

Novità  dall’EPONuove regole dal 1 aprile 2010 per le domande di brevetto divisionali all’Ufficio Europeo dei Brevetti.L’Ufficio Europeo dei Brevetti (UEB) ha recentemente adottato nuove regole per il deposito di domande di brevetto divisionali; le nuove disposizioni entrano in vigore a partire dal 1 aprile 2010 e vanno a modificare la vigente Regola 36 paragrafo (1) e (2) della Convenzione sul Brevetto Europeo (CBE).Pur mantenendo la stessa data di deposito della domanda parentale, e quindi traendo beneficio dello stesso diritto/i di priorità, la domanda divisionale è trattata come una nuova domanda di brevetto, indipendente da  quella parentale, purché il suo contenuto non  si estenda oltre a quanto descritto nella parentale. In breve, non è possibile aggiungere materiale non direttamente riconducibile  a quest’ultima (art. 76.1 CBE).Sino ad oggi, era possibile depositare una domanda divisionale in qualsiasi momento della procedura, a condizione che la domanda originaria (parentale) fosse ancora pendente.Fermo restando quanto previsto nell’art. 76.1, le modifiche recentemente adottate introducono stringenti limiti temporali tali da ridurre sensibilmente le modalità di deposito di domande divisionali sia volontarie (secondo le necessità del Titolare) che obbligatorie (in quanto richieste dall’UEB).Qui di seguito, sono riportate le modifiche più rilevanti.Secondo la nuova Regola 36 (1) (a), il Titolare di una domanda di brevetto può depositare volontariamente una (o più) domanda divisionale sulla base di una domanda parentale non ancora rilasciata, quindi pendente, entro 24 mesi dalla prima comunicazione emessa dalla Divisione di Esame dell’UEB rispetto a tale domanda parentale. Va da sé che qualora la domanda parentale cessa di essere pendente dopo la notifica della prima comunicazione, benché prima della scadenza dei 24 mesi, non sarà più possibile attivare la procedura del deposito divisionale. La comunicazione del Rapporto di Ricerca e dell’opinione della Divisione di Ricerca dell’UEB non costituisce, la base per il calcolo dei 24 mesi in quanto la “prima comunicazione della Divisione di Esame dell’UEB” è una comunicazione emessa in base all’Art. 94(3) e la Regola 71 (1),(2) della Convenzione o, laddove  appropriato, alla Regola 71(3).Nel caso di una serie di domande di brevetto divisionali, il periodo dei 24 mesi è da calcolarsi dalla data in cui viene emessa la prima comunicazione della Divisione di Esame dell’UEB, relativa alla prima domanda di brevetto (domanda parentale) della serie.Secondo la nuova Regola 36 (1) (b), il  Titolare di una domanda di brevetto è inviato a depositare obbligatoriamente una (o più) domanda divisionale sulla base di una domanda parentale pendente, entro 24 mesi da ogni comunicazione emessa dall’UEB in cui la Divisione di Esame solleva, per la prima volta, una obiezione di non-unità di invenzione, secondo l’Art. 82 della CBE.  Una obiezione di non-unità è solitamente sollevata nella prima comunicazione della Divisione di Esame in conformità all’Art. 94(3) e alla Regola 71(1),(2) della Convenzione o, se già sollevata dalla Divisione di Ricerca, è ivi confermata. La comunicazione del Rapporto di Ricerca e dell’opinione della Divisione di Ricerca dell’UEB non costituisce la base per il calcolo dei 24 mesi. Né la conferma della mancanza di unità di invenzione in una comunicazione successiva da parte della Divisione di Esame fa decorrere un nuovo periodo per il deposito di successive domande divisionali obbligatorie. La comunicazione emessa dall’UEB, quale Autorità Internazionale (Autorità di Ricerca Internazionale – ISA- o Autorità Internazionale per l’Esame Preliminare  – IPEA-) durante la procedura PCT,  non fa decorrere il periodo dei 24 mesi per il deposito di domande di brevetto divisionali.  Resta inteso che un nuovo limite temporale di 24 mesi può essere calcolato solo sulla base della comunicazione della Divisione di Esame in cui una nuova, differente obiezione di non-unità di invenzione viene sollevata. Poiché la norma modificata della Regola 36 della CBE trova applicazione alle sole domande di brevetto divisionali depositate dopo la sua entrata in vigore, ossia dal 1 aprile 2010, l’UEB ha previsto un periodo di transitorietà affinchè, laddove vi siano limiti temporali ancora non scaduti al 1 aprile 2010, questi siano prorogati per non meno di sei mesi. In altre parole, per qualsiasi domanda di brevetto ancora pendente al 1 aprile 2010,  e per la quale è stata emessa una prima comunicazione della Divisione di Esame o è stata (successivamente) sollevata una obiezione di non-unità di invenzione, la scadenza ultima per il deposito di eventuali domande divisionali non potrà essere antecedente al 1 ottobre 2010.La norma è in linea con il tentativo da parte dell’UEB di ridurre i tempi dell’esame e di scoraggiare i richiedenti a depositare domande di brevetto contenenti più invenzioni. Vantaggiosamente si dovrebbe ottenere anche un riscontro sulla brevettabilità del contenuto della domanda di brevetto, in tempi più brevi. Infatti le nuove disposizioni pongono un’attenzione particolare ai terzi che, disponendo di un trovato divulgato in una domanda di brevetto ma non ivi rivendicato, sono costretti a operare in un regime di incertezza fino all’esito finale della procedura brevettuale.Anne Cécile TrillatMonica Settede simone & partners




Il 5 febbraio scorso, in occasione dell’Assemblea nazionale di AIPPI, si è tenuto un interessante seminario su “Le novità IP della legge 99/2009 e del dl 135/2009”, con il coinvolgimento di autorevoli relatori quali – in ordine di intervento – l’avv. Silvia Giudici, l’avv. Giacomo Gualtieri, l’avv. prof. Cesare Galli e l’avv. prof. Marco Cuniberti, coordinati dal Presidente avv. prof. Luigi Carlo Ubertazzi.

L’apertura dei lavori è stata affidata all’intervento dell’avv. Silvia Giudici concernente le principali novità di natura civilistica introdotte dall’art. 19 della legge 99/2009.

Tra esse, particolare rilievo assume l’introduzione della priorità interna, ossia la possibilità di depositare una domanda italiana di brevetto (o modello di utilità), rivendicando la priorità di una precedente domanda anch’essa italiana, “purchè la seconda si riferisca ad elementi già contenuti nella domanda di cui si rivendica la priorità”.

Secondo l’interpretazione suggerita dalla relatrice, la priorità interna – diversamente della priorità unionista – permette all’inventore di riscrivere la domanda, modificando ed integrando la descrizione (eventualmente anche aggiungendo nuovi disegni e nuovi risultati), nonché di formulare nuove rivendicazioni, fermo restando che la tutela brevettuale decorrerà dalla data del primo deposito limitatamente agli elementi già contenuti nella domanda prioritaria, come eventualmente integrati mediante il secondo deposito. Diversamente, tutto ciò che non era presente neppure in forma embrionale nella prima domanda, costituirà invece materia nuova e sarà tutelato con decorrenza dalla data del secondo deposito, non potendo beneficiare della priorità.

Nella pratica – evidenzia la relatrice – la priorità interna potrà essere utilizzata per sanare l’insufficiente descrizione del primo deposito, per convertire il modello di utilità in invenzione e viceversa, per integrare le rivendicazioni, per aggiungere materia nuova e, non da ultimo, per estendere di un anno l’esclusiva brevettuale concessa.

Un’interpretazione difforme è stata invece proposta dal prof. Avv. Ubertazzi, ad avviso del quale la priorità interna ha gli stessi effetti della priorità unionista, perchè identica ne è la ratio. A sostegno di tale interpretazione deporrebbero, tra gli altri argomenti, la lettera della norma laddove si riferisce al “diritto di priorità anche rispetto alla domanda nazionale”, e la collocazione della stessa dopo la priorità unionista.

Sarà interessante vedere quale posizione incontrerà  il favore della prassi e della giurisprudenza.

E’ stata, poi, la volta dell’avv. Giacomo Gualtieri, il quale passato in rassegna le novità di diritto penale industriale introdotte dalla legge 99/2009, ossia: a) la riscrittura della disciplina del reato di contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali; b) la riformulazione del reato di introduzione nel territorio dello Stato e commercio di prodotti con segni falsi; c) la previsione per entrambi i predetti reati di specifiche circostanze aggravanti nelle ipotesi in cui la contraffazione riguardi ingenti quantitativi, ovvero sia continuativa, o posta in essere in modo organizzato (art. 473, 474 e 474-ter cp); d) l’introduzione di nuove disposizioni in materia di confisca di beni; e) la modifica della norma sul reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci; f) l’introduzione di due nuove fattispecie di reato: la fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando diritti di proprietà industriale e la contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari.

L’avv. Gualtieri ha sottolineato come alcune delle novità in commento abbiano il principale merito di aver recepito anche nella disciplina penale la moderna concezione di marchio quale veicolo di messaggi positivi, meritevole di tutela contro ogni forma di sfruttamento parassitario, quand’anche di natura non confusoria.

L’interesse protetto da questi nuovi reati, infatti, non è più la tutela della fede pubblica, ma la tutela dei beni, trovando così repressione panale anche il cd. falso d’autore (o falso palese) nonché la contraffazione dell’invenzione brevettata, fattispecie prima difficilmente configurabile come reato, non riscontrandosi alcuna lesione alla fede pubblica.

L’intervento dedicato alle nuova disciplina sull’indicazione di origine e made in Italy è stato condotto dall’avv. prof. Cesare Galli, il quale ha offerto la propria lettura critica dell’art. 4 comma 49 legge n. 350/2003, come riformulato dalla legge 99/2009.

La norma – che ha avuto vita brevissima – vieta l’uso di marchi “di aziende italiane” su prodotti o merci non realizzati in Italia, senza indicazione chiara dell’effettiva provenienza estera con “caratteri evidenti” o con “altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera”. Essa – osserva Galli – non solo costituisce un ostacolo alla delocalizzazione produttiva, ma introduce un’ingiustificata disparità di trattamento tra le imprese italiane che realizzano i propri prodotti all’estero e le imprese straniere che parimenti delocalizzano la propria produzione.

La segnalata disparità di trattamento viene peraltro mantenuta anche nella versione successiva all’abrogazione parziale operata dal successivo d.l. n. 135/2009.

Il citato decreto (all’art. 16) sostituisce la sanzione penale con una sanzione amministrativa e non parla più di “marchi di imprese italiane”, ma di “uso del marchio con modalità tale da indurre a ritenere che siano di provenienza italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto”

Secondo la lettura critica proposta:

– la norma continua ad essere discriminatoria nella misura in cui non sanziona qualsiasi ipotesi di difformità tra provenienza geografica apparente e provenienza geografica effettiva, ma solo quelle in cui la predetta difformità riguarda la provenienza italiana, con conseguente censurabilità della norma sia per violazione dell’art. 3 della Costituzione, sia per violazione al principio comunitario della libera circolazione delle merci;

la norma è ambigua in quanto non consente di determinare se sia sufficiente a configurare l’illecito la mera apposizione di un marchio che sembri italiano o se occorra anche il compimento di condotte ulteriori atte a far ritenere che il prodotto abbia origine italiana;

– inoltre, la portata dell’inciso “uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario” è dubbia e non consente di stabilire se la norma riguardi anche i prodotti immessi in Italia, ma destinati a mercati esteri.

Diverse perplessità sono state sollevate anche in ordine alla norma del comma 4 del medesimo art 16, che sanziona penalmente l’utilizzo di indicazioni atte a far ritenere che il prodotto sia interamente realizzato in Italia, quando ciò non risponda al vero. Le espressioni “100% made in Italy”, “100% italiano”, “tutto italiano” possono essere utilizzate legittimamente solo con riferimento a prodotti “per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano”.

Nonostante le ambiguità della norma Galli reputa preferibile l’interpretazione secondo cui non configurerebbe la fattispecie la mera apposizione del tricolore o dello stivale, posto che questi simboli designerebbero semplicemente l’origine italiana della merce, nell’accezione accolta dal Codice Doganale Comunitario.

In chiusura, l’intervento dell’avv. prof. Marco Cuniberti, volto a delineare i confini della delega contenuta nel comma 15 dell’art. 19.

Per effetto di essa il legislatore delegato è chiamato ad adottare, entro un anno dall’entrata in vigore della legge 99/2009, disposizioni correttive o integrative, non solo di ordine sostanziale, ma anche di ordine processuale, circostanza, questa, che dovrebbe ridurre notevolmente i rischi di subire pronunce di incostituzionalità simili a quelle che hanno investito il Cpi.

Principi direttivi fissati dalla norma sono, tra altri, l’esigenza di armonizzare la normativa con la disciplina comunitaria ed internazionale (sub let. b) e l’introduzione di una nuova disciplina delle invenzioni dei dipendenti delle Università e delle istituzioni pubbliche di ricerca, con attribuzione a queste dei relativi diritti di brevetto.

A quest’ultimo riguardo viene sollevato un dubbio sulla legittimità della delega nella misura in cui, ponendosi in direzione contraria rispetto alle scelte operate dal legislatore del Cpi, non si limiterebbe ad “adottare disposizioni correttive o integrative” ma si tradurrebbe in una vera e propria abrogazione con ripristino della disciplina previgente il Cpi. Secondo l’interpretazione suggerita dal relatore ciò costituirebbe un problema di rilievo costituzionale solo laddove la norma del Cpi eventualmente abrogata si ponesse come elemento centrale delle linee guida contenute nella precedente delega.

Avv. Barbara Sartori

CBA – Studio Legale e Tributario




Aldo Fittante, Il nuovo diritto industriale e d’autore – Profili sostanziali e processuali  dell’industrial design, Cacucci Editore, Bari, 2009, pp.301.

Si tratta della nuova  edizione della monografia  dell’Autore sul design del 2002, viste  le numerose modifiche legislative intervenute in materia. Come osserva il prof. Mario Fabiani nella sua presentazione, l’arte industriale si caratterizza sempre più per il fatto di introdurre in prodotti destinati all’uso comune un apporto di elementi creativi che ne accrescono il valore sotto il profilo dell’aspetto esteriore.  L’Autore imposta quindi la problematica giuridica dell’istituto dall’angolo visuale dello strumento di competitività aziendale che oggi il design riveste. Il lavoro si articola  nella distinzione tra la tutela apprestata dall’ordinamento come titolo di proprietà industriale e quella del design, inteso come oggetto di diritto d’autore, con attenzione anche al design comunitario.




Emanuele Montelione, Farmaci e persona nel diritto privato, Morlacchi editore, Perugia, 2008, pp.338

I medicinali non sono beni come tutti gli altri ed i mercati farmaceutici sono luoghi dove quasi tutto ciò che vi avviene è regolamentato. L’Autore propone un ideale viaggio giuridico attorno al medicinale dalla sua produzione alla sua commercializzazione e consumo finale, esaminando in particolare il rapporto tra l’interesse del singolo inventore, quello dell’impresa e del consumatore. Nella parte seconda l’attenzione viene indirizzata sugli aspetti inventivi e brevettuali e  del marchio nell’ambito farmaceutico.

Il lavoro si segnala per l’analisi accurata e documentata del settore in questione, in una prospettiva bottom-up della proprietà industriale.




Stefano Sandri. GIURISPRUDENZA COMUNITARIA DEL MARCHIO- Commento Tematico, Ed. EXPERTA, Forlì, [email protected], 2009, pp.541.

L’Autore, al suo rientro in Italia, mette a punto la sua esperienza di giudice amministrativo del marchio comunitario, maturata nel corso del tempo nel contesto europeo  giuridico e giurisdizionale del marchio comunitario.  Ne è nato uno strumento di lavoro, pratica e conoscenza che consente all’operatore, come al giurista puro, l’aggiornamento sulla evoluzione interpretativa ed applicativa  di questo istituto, sempre più armonizzato con il nostro diritto interno, che anticipa per molti versi.

La massa di materiale che la Corte di giustizia ha prodotto a partire dal ‘2000 è stato selezionato per rappresentare le linee di tendenza giurisprudenziale sulle diverse problematiche.

Il commentario viene e presentato per temi, in modo da permetterne una rapida consultazione mirata utilizzando quattro indici di accesso e collegamento. Uno strumento di lavoro destinato ai professionisti della P.I., ma anche agli  studiosi che potranno approfondire il diritto di marchio attraverso gli ampi riferimenti dottrinali.




La contraffazione a mezzo della rete Internet – così come la vendita attraverso questi canali di prodotti la cui commercializzazione è riservata a canali regolamentati (come i farmaci) – con conseguenze pregiudizievoli di estrema gravità sia per i titolari dei diritti di proprietà industriale violati, sia per la sicurezza e la stessa salute dei cittadini (che anche la contraffazione mette spesso in pericolo, poiché i falsi sono spesso anche pericolosi o sono realizzati in modo non conforme alle prescrizioni sulla sicurezza dei prodotti) sta divenendo un problema sempre più grave, raggiungendo proporzioni di giorno in giorno più allarmanti.
Questo problema ha assunto certamente un rilievo che non poteva essere previsto al momento dell’adozione della Direttiva n. 2000/31/C.E. e nemmeno in quello dell’attuazione di essa nel nostro Paese, operata con il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, emanato in forza della delega conferita al Governo dalla legge 1° marzo 2002, n. 39 (Legge comunitaria 2001). La Direttiva, tuttavia, contiene una serie di elementi che, se opportunamente valorizzati dalla giurisprudenza (e dai legislatori nazionali), consentono di delineare una soluzione equilibrata al problema della responsabilità degli Internet service providers, e più in generale dei fornitori di servizi via web.
In particolare, la Direttiva prevede espressamente che i fornitori dei servizi web da essa disciplinati rispondano, anche sul piano del risarcimento del danno, in tutti i casi in cui vi sia la consapevolezza da parte loro dell’illiceità dell’attività del destinatario del servizio o dell’informazione da esso fornita, ovvero di fatti e di circostanze che rendano questa illiceità manifesta, e non siano intervenuti per rimuovere le informazioni o disabilitare l’accesso non appena siano venuti al corrente di tali fatti. La Direttiva, inoltre, consente agli Stati membri di prevedere, anche in difetto di questi presupposti, «la possibilità di azioni inibitorie», cioè di azioni che impongano ai providers di «porre fine a una violazione o impedirla, anche con la rimozione dell’informazione illecita o la disabilitazione dell’accesso alla medesima»; e prevede altresì che le esenzioni e le deroghe in materia di responsabilità da essa previste non si applichino al prestatore che deliberatamente collabori con un destinatario del suo servizio al fine di commettere atti illeciti, a quello che presti servizi ulteriori a quelli disciplinati dalla Direttiva, ed a quello che non abbia adempiuto al dovere di diligenza che è ragionevole attendersi da esso ed è previsto dal diritto al fine di individuare e prevenire taluni tipi di attività illecite. Il che significa che già oggi i casi più eclatanti della contraffazione web potrebbero essere adeguatamente colpiti sulla base delle norme ordinarie in materia di contraffazione, senza che il provider implicato nel fenomeno possa invocare la propria irresponsabilità.
In questa prospettiva si è  in effetti mossa anche la nostra giurisprudenza con due ordinanze recentissime (Trib. Roma, ord. 15 dicembre 2009, poi confermata in sede di reclamo da Trib. Roma, ord. 11 gennaio 2010), che hanno avuto modo di stabilire la responsabilità di un soggetto qualificatosi come hosting provider (nello specifico, il sito internet You-Tube) proprio sulla base dello stesso ragionamento sopra svolto.
In particolare sono stati ritenuti determinanti ai fini di affermare la responsabilità del titolare del sito:
il reiterato compimento di atti illeciti sui siti internet coinvolti
nonostante le numerose diffide (che ha portato a respingere la tesi in base alla quale il provider sarebbe irresponsabile in quanto la sua unica funzione sarebbe quella di mettere a disposizione  degli utenti gli spazi web); e
la concreta possibilità per il sito internet di monitorare l’attività degli utenti al fine di escludere la pubblicazione di immagini di contenuto pedo-pornografico, il che rendeva evidente che lo stesso sarebbe potuto avvenire anche al fine di escludere la pubblicazione di prodotti contraffatti, nonché quella di interrompere in maniera temporanea o permanente la fornitura del servizio per svariati motivi.
Il provvedimento in questione ha precisato che la valutazione della responsabilità del provider va effettuata caso per caso, e che in particolare una responsabilità si configura ogni qualvolta “il provider … eroghi servizi aggiuntivi e/o predisponga un controllo delle informazioni e, soprattutto quando, consapevole della presenza di materiale sospetto si astenga dall’accertarne la illiceità e dal rimuoverlo o se consapevole dell’antigiuridicità ometta di intervenire”, chiarendo che, nel caso di specie, l’attività illecita era stata posta in essere con modalità “inconciliabili con … la semplice messa a disposizione della piattaforma”. In una prospettiva analoga, ancorché relativa ad una problematica almeno in parte diversa, si deve segnalare anche la decisione di Cass. pen., 23 dicembre 2009, 1055, relativa ad un noto caso di download illegale di opere protette dal diritto d’autore per mezzo di un sistema c.d. peer to peer, che ha ritenuto sussistere la responsabilità del gestore di un sito internet già per il semplice fatto di aver organizzato “per mezzo di un motore di ricerca o con delle liste indicizzate” le informazioni (fornitegli da alcuni utenti) essenziali perché gli (altri) utenti potessero “orientarsi chiedendo il downloading di quell’opera piuttosto che un’altra”.
Valorizzando le possibilità offerte dalla Direttiva è dunque possibile tutelare nel modo migliore, ed allo stesso tempo, la sicurezza e la libertà di scelta degli utenti e degli operatori professionali della rete web e i diritti che sono più esposti alle violazioni commesse a mezzo della rete, ed in primis quelli di proprietà industriale e intellettuale, secondo la prospettiva di bilanciamento degli interessi che è appunto alla base della Direttiva.
Questa stessa prospettiva è del resto al centro delle riflessioni degli organismi che si stanno direttamente occupando di questo problema, sia a livello comunitario, sia a livello nazionale, rispettivamente in seno all’Osservatorio su Pirateria e Contraffazione della Commissione UE e al Tavolo sulla Contraffazione Web istituito dal neo-Direttore dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi e della Lotta alla Contraffazione, Avv. Loredana Gulino. Da questo lavoro di approfondimento è lecito attendersi un rilevante salto di qualità in un settore fondamentale per il futuro di un commercio elettronico rispettoso dei diritti di tutti i soggetti interessati al fenomeno.
Avv. Prof. Cesare Galli